Il tribunale
La Giurisdizione dei Consoli del Mare in età medicea
Le radici corporative
Chiamata a svolgere importanti funzioni di governo sulle due città litoranee toscane e sul contado pisano, la magistratura dei Consoli del Mare, voluta da Cosimo I nel 1551, non poteva considerarsi una creazione originale del regime mediceo, essendo erede, nel nome e nelle funzioni, di una ben più antica magistratura sorta nel xii secolo, al tempo della prima espansione marittima pisana. I Consoli del Mare in età comunale furono il principale organismo direttivo dell’Ordo Maris, la potente corporazione pisana che riuniva i mercanti, gli armatori, i capitani e tutte le altre categorie professionali legate ai traffici marittimi: sensali, marinai, lavoratori del porto e degli arsenali.
Nel xiii e xiv secolo il potere che la corporazione esercitò attraverso i Consoli si spinse ben oltre la tutela degli interessi professionali immediati. Sforzandosi di conservare ed ampliare gli sbocchi di mercato, i Consoli giunsero ad arrogarsi la direzione della politica estera con i paesi d’oltremare: ebbero il potere di nominare i diplomatici, la responsabilità sulle flotte militari, sulle difese costiere e sulla repressione della pirateria, vigilarono sull’andamento delle guerre e talvolta sostituirono il Comune nella stipulazione dei trattati. Se da una parte si fecero strumento di aggressiva proiezione esterna, dall’altra garantirono ai mercanti dell’Ordo Maris il monopolio di acquisto sul mercato interno esercitando estesi poteri sulle più deboli corporazioni artigiane e sulle attività agricole del contado.
Lex mercatoria
Nel Quattrocento, dopo la conquista di Pisa, i Consoli, da magistratura corporativa divennero un ufficio ‘estrinseco’ della città dominante, con competenze più o meno analoghe a quelle passate, ma esercitate adesso per conto del governo fiorentino delle Arti. Pur mutando di segno politico e nonostante il rimodellamento dei suoi assetti istituzionali e delle sue attribuzioni, il magistrato consolare rimase la principale autorità preposta al governo economico del territorio. Questa continuità di funzioni è rilevabile sul piano dell’azione amministrativa, ma anche, e soprattutto, sul piano delle attività giudiziaria e legislativa. Per il magistrato consolare, infatti, la direzione degli affari marittimi e commerciali implicò, sin dalle origini, l’esercizio di funzioni giurisdizionali – la curia maris –, e la produzione di un diritto particolare – ius mercatorum –, vincolante l’intero universo mercantile, senza mediazione alcuna da parte della società politica: vi furono sottoposti tutti i membri della corporazione, ma anche tutti coloro che, avendo stretto rapporti d’affari con un mercante potessero essere considerati tali per una fictio iuris. È in questo modo che il diritto commerciale muove i suoi primi passi: le sue norme regolano in prima battuta i rapporti interni di un corpo particolare, ma aspirano a farsi diritto universale imponendosi sull’insieme dei rapporti sociali, sia perché inizialmente sorrette dal predominio politico della corporazione, sia perché il presupposto della loro applicazione, anche nel quadro ordinamentale dello stato moderno, rimane lo stesso: nel rapporto da regolare è sufficiente che una delle parti sia un mercante perché ogni altro diritto concorrente decada.
I tribunali corporativi dei mercanti nascono in contrapposizione al foro civile ordinario per fornire al commercio una giustizia rapida, che garantisca l'esecuzione dei contratti e la prosecuzione del corso ordinario degli affari. Sul diritto romano, che non contempla regole specifiche per i contratti sorti nel corso dell’età comunale, come la lettera di cambio o le assicurazioni, prevalse lo jus mercatorum, un insieme di regole derivanti dalla pratica degli affari che, per favorire il creditore passava sopra tutte le cautele conservative che il diritto romano aveva accordato alla proprietà, prevedendo ad esempio l'azione personale sui debitori e una disciplina specifica per il concorso fallimentare. Per il mercante, del resto, il trasferimento della proprietà è solo un mezzo, scopo dell’attività mercantile è il guadagno speculativo, più facilmente raggiungibile in un contesto di regole che tuteli il creditore del prezzo di vendita sul proprietario, e privilegi la circolazione dei beni sul loro godimento. Ne consegue una netta semplificazione del processo e dell'escussione dei mezzi di prova. I giudizi dovevano essere solleciti, e per garantirlo si arrivò a stabilire tempi certi e inderogabili, almeno in linea di principio, per l'emissione delle sentenze, la cui appellabilità inoltre fu generalmente esclusa.
Per la loro attività giudiziaria i Consoli del Mare attingono ad un corpus normativo eterogeneo, innanzi tutto considerano gli statuti, il diritto positivo della corporazione (il Consitutum usus del 1161, e poi il Breve curiae maris del 1305), ma tengono conto anche delle consuetudini, la pratica costante dei contratti, e della giurisprudenza sviluppata dallo stesso tribunale consolare. Nel suo insieme questo corpus è giustamente chiamato dai dottori ius mercatorum; non solo perché si tratta di norme destinate a disciplinare l’attività dei mercanti, ma anche perché sono i mercanti stessi a produrlo, sia nelle vesti di statutarii della corporazione, sia nell’esercizio quotidiano mercatura, sia come giudici chiamati a dirimere le controversie. Anche in età medicea, quando ormai i Consoli saranno nominati dal granduca, la scelta ricadrà preferibilmente su quei membri del Consiglio dei Quarantotto, massima magistratura dello stato, che avessero esperienza in fatto di commercio.
Il governo del territorio
Nel quadro della politica di accentramento del Duca Alessandro il magistrato dei Consoli fu soppresso, trasferendo gran parte delle sue competenze a un Provveditore Generale alle gabelle. Come accennato, fu Cosimo I a ripristinarlo nel 1551, nominando due soli Consoli, al posto dei tre dell’età repubblicana, con incarico annuale e rinnovabile. Sottoposti al sindacato periodico dei Nove Conservatori del Dominio, i Consoli ebbero il controllo finanziario e giurisdizionale sulle magistrature economiche pisane e livornesi: l’Ufficio dei Fossi, la Grascia, la Sanità, le Arti e in seguito la Zecca. Avendo inoltre la sovrintendenza sulla Dogana, furono tenuti responsabili di tutte le riscossioni erariali, delle tasse di deposito e degli sdoganamenti, del monopolio del sale, delle imposte di macellazione, delle licenze di osterie e alberghi, dell’asta pubblica, della gabella dei contratti degli stipendi degli impiegati, della manutenzione degli edifici pubblici e delle strutture portuali.
Sotto il profilo amministrativo i Consoli avevano quindi competenze molto vaste, seppure circoscritte alla sfera dei rapporti mercantili: presiedevano alla riproduzione delle condizioni oggettive dello scambio ed erano responsabili di fronte al governo dell’ordine economico e del suo assoggettamento ai gravami fiscali e politici. La loro partecipazione alle magistrature settoriali, come la Dogana, l’Ufficio dei Fossi o la Grascia, era tanto più rilevante in quanto accompagnata dalla giurisdizione civile, penale e tributaria, esercitata in autonomia o in associazione con altri magistrati. Erano tutte giurisdizioni sussidiarie rispetto ai loro compiti di governo e sarebbero state esercitate in contiguità all’altra competenza spettante storicamente ai Consoli: la composizione del contenzioso commerciale e marittimo.
Nel corso del Seicento i Consoli furono privati di molte loro competenze amministrative. Nel quadro della politica di decentramento promossa da Ferdinando I, nel 1602 l’Ufficio dei Fossi ebbe il controllo finanziario sulle comunità del pisano che in precedenza era attribuito ai Consoli e ai Nove Conservatori. Due anni più tardi, una nuova magistratura, sorta come emanazione dell’Ufficio dei Fossi, fu incaricata di vigilare sulle fabbriche e sulle coltivazioni, sottraendo al magistrato consolare altre importanti competenze. Infine, il Provveditore e il Cancelliere della Dogana furono tenuti direttamente responsabili del loro dipartimento, così, anche se non intervenne in effetti alcuna statuizione a sanzionarlo, i Consoli finirono di fatto per perdere anche questa competenza, pur conservando la funzione di consultori fiscali e la giurisdizione su tutte le questioni erariali.
Il tribunale del Principe
L’antico tribunale corporativo, ripristinato da Cosimo, fu sottratto all'autonomia normativa dei mercanti e inquadrato negli assetti istituzionali dello stato mediceo. Le norme procedurali furono ricapitolate e parzialmente innovate dalla riforma del 1561, ma senza alterarne gli orientamenti di fondo. Le cause commerciali e marittime continuarono ad essere giudicate sommariamente, sine strepitu et figura iudicii, permettendo ai consoli di procedere a ogni atto, sia nella fase istruttoria che in udienza, senza sottostare alle formalità del rito civile ordinario, ed avendo come unico obbligo l'accertamento sostanziale dei fatti. Per impedire ai curiali di contravvenire al principio della celerità si stabilì l'inappellabilità delle sentenze, le quali poi sarebbero state emesse entro termini perentori, dai quindici ai quarantacinque giorni, a seconda dell'entità della causa. Soltanto per le cause di valore superiore ai trecento scudi fu ammessa la possibilità di un riesame da parte di un collegio giudicante allargato ad esperti del ceto mercantile, e tenuti comunque a chiudere il procedimento nel giro di sei giorni. Questa fase supplementare, detta del «ricorso», era l'unica in cui i mercanti poterono conservare una funzione giurisdizionale, ma andò in desuetudine intorno alla metà del ‘600, anche perché si accordò alla parte soccombente la facoltà di chiedere il riesame dell'intero procedimento alla Consulta e quindi alla Ruota fiorentina previo accertamento di vizi sostanziali o procedurali, o anche per grazia, che i granduchi raramente negavano. Era la restitutio in integrum, una forma di revisione che non intaccava il principio dell'inappellabilità, avendo infatti solo effetto devolutivo e non sospensivo della sentenza.
A rappresentare in qualche modo gli interessi della corporazione mercantile restarono i consoli, i due titolari della giurisdizione, scelti dal granduca tra i cittadini fiorentini che fossero membri del Consiglio dei Quarantotto e che avessero esperienza diretta del commercio, ma nel 1662 il loro ruolo fu ridimensionato a tutto vantaggio del cancelliere, adesso chiamato Segretario, al quale furono conferite funzioni di consultore legale tenendolo responsabile del corretto svolgimento dei procedimenti, in alcuni casi fino alla sentenza, ma comunque per tutta la fase istruttoria, tanto che l'intervento dei Consoli finì per essere limitato al solo dibattimento. Tra le maglie della procedura, sopravvisse un unico relitto dell’antica autonomia corporativa. Su richiesta delle parti alcuni dei più accreditati mercanti potevano essere interpellati dal tribunale per suggerire soluzioni sul caso venuto in discussione – i cosiddetti pareri pro veritate –, in questo modo si poté tener conto dell’evolversi della consuetudine, favorendo, quindi, per questa via il recepimento del diritto vivente nella giurisprudenza consolare e, più in generale, l’adeguamento del diritto mercantile alle dinamiche economiche concrete.
Altre competenze, altre fonti
I principi dell’inappellabilità e del rito abbreviato non riguardarono solo le liti commerciali e marittime, ma anche le cause corporative e civili che erano composte dai Consoli per lo più in secondo grado. Già una disposizione del 1557 affidò loro l’appello delle cause civili eccedenti i cento scudi decise in prima istanza dal Capitano di Livorno. La competenza civile fu ampliata nel 1561 con gli appelli sulle cause pisane e la cognizione, in concorrenza con il Commissario di Pisa e il Capitano di Livorno, delle prime istanze pisane e livornesi, avendo comunque l’accortezza di escludere alcune materie particolarmente delicate. Dal punto di vista del contenzioso privato si procedette a una sostanziale equiparazione tra il foro consolare e il tribunale della Mercanzia di Firenze, le cui competenze civili erano state delimitate sin dal 1477. Per gli interessi che vi erano coinvolti, alcune cause nascenti per lo più da atto pubblico dovevano essere necessariamente dibattute con tutte le garanzie del rito solenne. Se ne desumeva, per i Consoli e per la Mercanzia, un’incompatibilità procedurale rispetto al contenzioso in materia dotale e testamentaria, per le donazioni, divisioni, rivendicazioni di dominio “et qualunque altra cosa apparisse per mezzo di pubblico notaro”.
I Consoli dirimevano le liti civili in base agli statuti cittadini e al diritto comune, mentre per il contenzioso commerciale dovevano avvalersi principalmente degli statuti corporativi pisani, i quali però, essendo da molti punti di vista insufficienti e superati, furono integrati dagli statuti della Mercanzia di Firenze. Pur aspirando ad una vigenza sovranazionale, lo ius mercatorum nel xvi secolo rimase dunque ancorato ad una base di legittimità che si dimensionava per il momento al livello dello stato regionale, mentre nel diritto marittimo l’internazionalizzazione delle norme fu comprensibilmente più avanzata. Messo da parte il Breve curiae maris, restò stabilito che tutte le cause di mare fossero risolte “secondo li capitoli di Barzalona”. Il riferimento è al famoso libro del Consolat de mar, una raccolta di norme vigenti nel xiv secolo in gran parte del Mediterraneo, compilata da esperti dello jus marittimo e comprendente la disciplina del getto, delle avarie, del nolo e armamento delle navi, dei rapporti tra equipaggio e armatori etc.
Il mare è lontano
Sin dalla metà del ‘500 cominciò l’edificazione della città portuale di Livorno per sopperire all’interramento di Pisa causato dal fiume Arno. Il sito prescelto era disgraziatamente un pantano malarico, la cui completa bonifica richiese diversi decenni. Fu solo negli anni Venti e Trenta del ‘600 che la città poté offrire ai suoi abitanti una vita non troppo disagevole e accettabilmente salubre, così iniziò ad attrarre i grandi mercanti che tenevano le redini del commercio e che fino ad allora avevano preferito come luogo di residenza la più comoda città di Pisa. Le Logge dei Banchi sulle sponde dell’Arno si svuotarono, il centro degli affari si trasferì in prossimità del porto e la stessa rete amministrativa fu riformata per adeguarla allo spostamento del baricentro economico: gli uffici della Dogana livornese divennero un dipartimento a se stante, sotto il diretto controllo di Firenze, e il Governatore della città acquisì nuove competenze giurisdizionali in materia marittima e commerciale, a scapito dei Consoli del Mare, che conservarono i giudizi di merito e gli appelli.
Le competenze dei Consoli restarono comunque ampie, ma la posizione decentrata del tribunale rischiava di vanificare il principio della celerità dei processi. Ne derivò una disputa infinita, da una parte i mercanti che trovavano insopportabile fare armi e bagagli per spostarsi a Pisa tutte le volte che avevano bisogno del giudice; dall’altra i procuratori, gli avvocati e i Priori della Comunità di Pisa, i quali non avevano alcuna intenzione di rinunciare ad una delle poche fonti di reddito rimaste alla città.
Che Pisa fosse una sede non proprio ideale per un tribunale marittimo era già abbastanza chiaro a metà Cinquecento. Nel 1553 le lamentele dei lavoratori del mare spinsero Cosimo a trasferire a Livorno almeno la competenza sulle cause tra marinai e capitani. Il provvedimento però non riuscì a sedare il contenzioso e il granduca dovette intervenire di nuovo nel 1577, ordinando che le cause di valore inferiore ai quindici scudi fossero decise dal tribunale livornese e che non occorresse più il permesso dei Consoli per ricevere alla cancelleria di Livorno il consolato dei capitani, vale a dire quella deposizione giurata concernente le fortune di mare con cui si avviavano i procedimenti di assoluzione e avaria di cui i Consoli erano giudici privativi.
Il primo intervento organico volto a definire e coordinare la giurisdizione si ebbe nel 1623. Sino ad allora le sentenze del Governatore di Livorno furono riesaminabili in appello sia dai Consoli che dalla Ruota fiorentina. La supplica di un certo Giovanni Bernard di Marsiglia, il quale, dopo aver vinto una causa contro il capitano Andrea Bramont temeva di dover continuare la lite a Firenze, indusse il governo a riformare l’intero sistema, innalzando a duecento lire il valore delle cause appellabili e indicando la corte consolare, come unica corte di appello per le sentenze del Governatore di Livorno.
La mercatura e il commercio
Nel Sei e Settecento maturarono le premesse di nuovi orientamenti giurisprudenziali che a poco a poco avrebbero completato lo scollamento del tribunale dalla sua radice corporativa. Nel 1684 la Pratica Segreta di Firenze cassò una sentenza consolare relativa a un caso di corseggio, sostenendo che l’aggiudicazione delle prede effettuate dai corsari avevano tali risvolti pubblicistici da non poter rientrare nell’ambito di competenza del tribunale pisano. In questo modo faceva timidamente comparsa una concezione rivoluzionaria della giurisdizione: la natura di una causa andava dedotta dall’oggettivazione astratta del rapporto giuridico, indipendentemente dai soggetti che vi erano coinvolti. La privativa dei Consoli, insomma, non poteva estendersi indifferentemente su qualsiasi rapporto a cui avessero preso parte marinai, capitani o mercanti, ma, senza curarsi delle persone, andava limitata ai rapporti aventi intrinsecamente un rilievo dal punto di vista dello jus marittimo e mercantile. Così non era, ad esempio, per i delitti commessi a bordo delle navi, che la Pratica sottrasse ai Consoli per affidarli senz'altro alla corte criminale del Governatore di Livorno.
Una coerente definizione della giurisdizione marittima e commerciale “ratione materiae” si affermerà comunque solo nel xix secolo. Le famose Ordonnaces colbertiane, le prime leggi organiche di emanazione statale sulla materia commerciale (1673) e marittima (1681) contribuirono a razionalizzare e unificare la normativa, esercitando un enorme influenza anche sulla prassi e sulla dottrina italiana, dal Targa al Casaregis. Gli stessi Consoli di Pisa dovettero farvi regolarmente richiamo in tutte le questioni per le quali gli Statuti di Mercanzia e di Sicurtà non fornivano risposte adeguate. Tuttavia, anche le Ordonnances rimasero ancorate agli schemi soggettivistici del diritto corporativo: pur individuando gli istituti di commercio nella loro nuda oggettività, le leggi di Colbert presupponevano ancora nel mercante il destinatario esclusivo delle norme.
Solo il Code de commerce napoleonico —pur mantenendo, come le Ordonnances la riserva dei mercanti sulla giurisdizione —, prenderà in considerazione gli 'atti di commercio' in quanto tali, a prescindere dalla persona che li avesse compiuti. I Consoli, tuttavia, non ebbero occasione di avvalersene, poiché cesseranno di esistere prima del recepimento del Code da parte della Toscana. Sopravvissuta alle riforme leopoldine di fine Settecento, l'antica magistratura pisana dei Consoli del Mare fu soppressa con l'aggregazione all'Impero francese, e sostituita nel 1809 dal Tribunale di Commercio di Livorno. Dopo due secoli e mezzo, la richiesta dei mercanti livornesi veniva finalmente esaudita.
Le radici corporative
Chiamata a svolgere importanti funzioni di governo sulle due città litoranee toscane e sul contado pisano, la magistratura dei Consoli del Mare, voluta da Cosimo I nel 1551, non poteva considerarsi una creazione originale del regime mediceo, essendo erede, nel nome e nelle funzioni, di una ben più antica magistratura sorta nel xii secolo, al tempo della prima espansione marittima pisana. I Consoli del Mare in età comunale furono il principale organismo direttivo dell’Ordo Maris, la potente corporazione pisana che riuniva i mercanti, gli armatori, i capitani e tutte le altre categorie professionali legate ai traffici marittimi: sensali, marinai, lavoratori del porto e degli arsenali.
Nel xiii e xiv secolo il potere che la corporazione esercitò attraverso i Consoli si spinse ben oltre la tutela degli interessi professionali immediati. Sforzandosi di conservare ed ampliare gli sbocchi di mercato, i Consoli giunsero ad arrogarsi la direzione della politica estera con i paesi d’oltremare: ebbero il potere di nominare i diplomatici, la responsabilità sulle flotte militari, sulle difese costiere e sulla repressione della pirateria, vigilarono sull’andamento delle guerre e talvolta sostituirono il Comune nella stipulazione dei trattati. Se da una parte si fecero strumento di aggressiva proiezione esterna, dall’altra garantirono ai mercanti dell’Ordo Maris il monopolio di acquisto sul mercato interno esercitando estesi poteri sulle più deboli corporazioni artigiane e sulle attività agricole del contado.
Lex mercatoria
Nel Quattrocento, dopo la conquista di Pisa, i Consoli, da magistratura corporativa divennero un ufficio ‘estrinseco’ della città dominante, con competenze più o meno analoghe a quelle passate, ma esercitate adesso per conto del governo fiorentino delle Arti. Pur mutando di segno politico e nonostante il rimodellamento dei suoi assetti istituzionali e delle sue attribuzioni, il magistrato consolare rimase la principale autorità preposta al governo economico del territorio. Questa continuità di funzioni è rilevabile sul piano dell’azione amministrativa, ma anche, e soprattutto, sul piano delle attività giudiziaria e legislativa. Per il magistrato consolare, infatti, la direzione degli affari marittimi e commerciali implicò, sin dalle origini, l’esercizio di funzioni giurisdizionali – la curia maris –, e la produzione di un diritto particolare – ius mercatorum –, vincolante l’intero universo mercantile, senza mediazione alcuna da parte della società politica: vi furono sottoposti tutti i membri della corporazione, ma anche tutti coloro che, avendo stretto rapporti d’affari con un mercante potessero essere considerati tali per una fictio iuris. È in questo modo che il diritto commerciale muove i suoi primi passi: le sue norme regolano in prima battuta i rapporti interni di un corpo particolare, ma aspirano a farsi diritto universale imponendosi sull’insieme dei rapporti sociali, sia perché inizialmente sorrette dal predominio politico della corporazione, sia perché il presupposto della loro applicazione, anche nel quadro ordinamentale dello stato moderno, rimane lo stesso: nel rapporto da regolare è sufficiente che una delle parti sia un mercante perché ogni altro diritto concorrente decada.
I tribunali corporativi dei mercanti nascono in contrapposizione al foro civile ordinario per fornire al commercio una giustizia rapida, che garantisca l'esecuzione dei contratti e la prosecuzione del corso ordinario degli affari. Sul diritto romano, che non contempla regole specifiche per i contratti sorti nel corso dell’età comunale, come la lettera di cambio o le assicurazioni, prevalse lo jus mercatorum, un insieme di regole derivanti dalla pratica degli affari che, per favorire il creditore passava sopra tutte le cautele conservative che il diritto romano aveva accordato alla proprietà, prevedendo ad esempio l'azione personale sui debitori e una disciplina specifica per il concorso fallimentare. Per il mercante, del resto, il trasferimento della proprietà è solo un mezzo, scopo dell’attività mercantile è il guadagno speculativo, più facilmente raggiungibile in un contesto di regole che tuteli il creditore del prezzo di vendita sul proprietario, e privilegi la circolazione dei beni sul loro godimento. Ne consegue una netta semplificazione del processo e dell'escussione dei mezzi di prova. I giudizi dovevano essere solleciti, e per garantirlo si arrivò a stabilire tempi certi e inderogabili, almeno in linea di principio, per l'emissione delle sentenze, la cui appellabilità inoltre fu generalmente esclusa.
Per la loro attività giudiziaria i Consoli del Mare attingono ad un corpus normativo eterogeneo, innanzi tutto considerano gli statuti, il diritto positivo della corporazione (il Consitutum usus del 1161, e poi il Breve curiae maris del 1305), ma tengono conto anche delle consuetudini, la pratica costante dei contratti, e della giurisprudenza sviluppata dallo stesso tribunale consolare. Nel suo insieme questo corpus è giustamente chiamato dai dottori ius mercatorum; non solo perché si tratta di norme destinate a disciplinare l’attività dei mercanti, ma anche perché sono i mercanti stessi a produrlo, sia nelle vesti di statutarii della corporazione, sia nell’esercizio quotidiano mercatura, sia come giudici chiamati a dirimere le controversie. Anche in età medicea, quando ormai i Consoli saranno nominati dal granduca, la scelta ricadrà preferibilmente su quei membri del Consiglio dei Quarantotto, massima magistratura dello stato, che avessero esperienza in fatto di commercio.
Il governo del territorio
Nel quadro della politica di accentramento del Duca Alessandro il magistrato dei Consoli fu soppresso, trasferendo gran parte delle sue competenze a un Provveditore Generale alle gabelle. Come accennato, fu Cosimo I a ripristinarlo nel 1551, nominando due soli Consoli, al posto dei tre dell’età repubblicana, con incarico annuale e rinnovabile. Sottoposti al sindacato periodico dei Nove Conservatori del Dominio, i Consoli ebbero il controllo finanziario e giurisdizionale sulle magistrature economiche pisane e livornesi: l’Ufficio dei Fossi, la Grascia, la Sanità, le Arti e in seguito la Zecca. Avendo inoltre la sovrintendenza sulla Dogana, furono tenuti responsabili di tutte le riscossioni erariali, delle tasse di deposito e degli sdoganamenti, del monopolio del sale, delle imposte di macellazione, delle licenze di osterie e alberghi, dell’asta pubblica, della gabella dei contratti degli stipendi degli impiegati, della manutenzione degli edifici pubblici e delle strutture portuali.
Sotto il profilo amministrativo i Consoli avevano quindi competenze molto vaste, seppure circoscritte alla sfera dei rapporti mercantili: presiedevano alla riproduzione delle condizioni oggettive dello scambio ed erano responsabili di fronte al governo dell’ordine economico e del suo assoggettamento ai gravami fiscali e politici. La loro partecipazione alle magistrature settoriali, come la Dogana, l’Ufficio dei Fossi o la Grascia, era tanto più rilevante in quanto accompagnata dalla giurisdizione civile, penale e tributaria, esercitata in autonomia o in associazione con altri magistrati. Erano tutte giurisdizioni sussidiarie rispetto ai loro compiti di governo e sarebbero state esercitate in contiguità all’altra competenza spettante storicamente ai Consoli: la composizione del contenzioso commerciale e marittimo.
Nel corso del Seicento i Consoli furono privati di molte loro competenze amministrative. Nel quadro della politica di decentramento promossa da Ferdinando I, nel 1602 l’Ufficio dei Fossi ebbe il controllo finanziario sulle comunità del pisano che in precedenza era attribuito ai Consoli e ai Nove Conservatori. Due anni più tardi, una nuova magistratura, sorta come emanazione dell’Ufficio dei Fossi, fu incaricata di vigilare sulle fabbriche e sulle coltivazioni, sottraendo al magistrato consolare altre importanti competenze. Infine, il Provveditore e il Cancelliere della Dogana furono tenuti direttamente responsabili del loro dipartimento, così, anche se non intervenne in effetti alcuna statuizione a sanzionarlo, i Consoli finirono di fatto per perdere anche questa competenza, pur conservando la funzione di consultori fiscali e la giurisdizione su tutte le questioni erariali.
Il tribunale del Principe
L’antico tribunale corporativo, ripristinato da Cosimo, fu sottratto all'autonomia normativa dei mercanti e inquadrato negli assetti istituzionali dello stato mediceo. Le norme procedurali furono ricapitolate e parzialmente innovate dalla riforma del 1561, ma senza alterarne gli orientamenti di fondo. Le cause commerciali e marittime continuarono ad essere giudicate sommariamente, sine strepitu et figura iudicii, permettendo ai consoli di procedere a ogni atto, sia nella fase istruttoria che in udienza, senza sottostare alle formalità del rito civile ordinario, ed avendo come unico obbligo l'accertamento sostanziale dei fatti. Per impedire ai curiali di contravvenire al principio della celerità si stabilì l'inappellabilità delle sentenze, le quali poi sarebbero state emesse entro termini perentori, dai quindici ai quarantacinque giorni, a seconda dell'entità della causa. Soltanto per le cause di valore superiore ai trecento scudi fu ammessa la possibilità di un riesame da parte di un collegio giudicante allargato ad esperti del ceto mercantile, e tenuti comunque a chiudere il procedimento nel giro di sei giorni. Questa fase supplementare, detta del «ricorso», era l'unica in cui i mercanti poterono conservare una funzione giurisdizionale, ma andò in desuetudine intorno alla metà del ‘600, anche perché si accordò alla parte soccombente la facoltà di chiedere il riesame dell'intero procedimento alla Consulta e quindi alla Ruota fiorentina previo accertamento di vizi sostanziali o procedurali, o anche per grazia, che i granduchi raramente negavano. Era la restitutio in integrum, una forma di revisione che non intaccava il principio dell'inappellabilità, avendo infatti solo effetto devolutivo e non sospensivo della sentenza.
A rappresentare in qualche modo gli interessi della corporazione mercantile restarono i consoli, i due titolari della giurisdizione, scelti dal granduca tra i cittadini fiorentini che fossero membri del Consiglio dei Quarantotto e che avessero esperienza diretta del commercio, ma nel 1662 il loro ruolo fu ridimensionato a tutto vantaggio del cancelliere, adesso chiamato Segretario, al quale furono conferite funzioni di consultore legale tenendolo responsabile del corretto svolgimento dei procedimenti, in alcuni casi fino alla sentenza, ma comunque per tutta la fase istruttoria, tanto che l'intervento dei Consoli finì per essere limitato al solo dibattimento. Tra le maglie della procedura, sopravvisse un unico relitto dell’antica autonomia corporativa. Su richiesta delle parti alcuni dei più accreditati mercanti potevano essere interpellati dal tribunale per suggerire soluzioni sul caso venuto in discussione – i cosiddetti pareri pro veritate –, in questo modo si poté tener conto dell’evolversi della consuetudine, favorendo, quindi, per questa via il recepimento del diritto vivente nella giurisprudenza consolare e, più in generale, l’adeguamento del diritto mercantile alle dinamiche economiche concrete.
Altre competenze, altre fonti
I principi dell’inappellabilità e del rito abbreviato non riguardarono solo le liti commerciali e marittime, ma anche le cause corporative e civili che erano composte dai Consoli per lo più in secondo grado. Già una disposizione del 1557 affidò loro l’appello delle cause civili eccedenti i cento scudi decise in prima istanza dal Capitano di Livorno. La competenza civile fu ampliata nel 1561 con gli appelli sulle cause pisane e la cognizione, in concorrenza con il Commissario di Pisa e il Capitano di Livorno, delle prime istanze pisane e livornesi, avendo comunque l’accortezza di escludere alcune materie particolarmente delicate. Dal punto di vista del contenzioso privato si procedette a una sostanziale equiparazione tra il foro consolare e il tribunale della Mercanzia di Firenze, le cui competenze civili erano state delimitate sin dal 1477. Per gli interessi che vi erano coinvolti, alcune cause nascenti per lo più da atto pubblico dovevano essere necessariamente dibattute con tutte le garanzie del rito solenne. Se ne desumeva, per i Consoli e per la Mercanzia, un’incompatibilità procedurale rispetto al contenzioso in materia dotale e testamentaria, per le donazioni, divisioni, rivendicazioni di dominio “et qualunque altra cosa apparisse per mezzo di pubblico notaro”.
I Consoli dirimevano le liti civili in base agli statuti cittadini e al diritto comune, mentre per il contenzioso commerciale dovevano avvalersi principalmente degli statuti corporativi pisani, i quali però, essendo da molti punti di vista insufficienti e superati, furono integrati dagli statuti della Mercanzia di Firenze. Pur aspirando ad una vigenza sovranazionale, lo ius mercatorum nel xvi secolo rimase dunque ancorato ad una base di legittimità che si dimensionava per il momento al livello dello stato regionale, mentre nel diritto marittimo l’internazionalizzazione delle norme fu comprensibilmente più avanzata. Messo da parte il Breve curiae maris, restò stabilito che tutte le cause di mare fossero risolte “secondo li capitoli di Barzalona”. Il riferimento è al famoso libro del Consolat de mar, una raccolta di norme vigenti nel xiv secolo in gran parte del Mediterraneo, compilata da esperti dello jus marittimo e comprendente la disciplina del getto, delle avarie, del nolo e armamento delle navi, dei rapporti tra equipaggio e armatori etc.
Il mare è lontano
Sin dalla metà del ‘500 cominciò l’edificazione della città portuale di Livorno per sopperire all’interramento di Pisa causato dal fiume Arno. Il sito prescelto era disgraziatamente un pantano malarico, la cui completa bonifica richiese diversi decenni. Fu solo negli anni Venti e Trenta del ‘600 che la città poté offrire ai suoi abitanti una vita non troppo disagevole e accettabilmente salubre, così iniziò ad attrarre i grandi mercanti che tenevano le redini del commercio e che fino ad allora avevano preferito come luogo di residenza la più comoda città di Pisa. Le Logge dei Banchi sulle sponde dell’Arno si svuotarono, il centro degli affari si trasferì in prossimità del porto e la stessa rete amministrativa fu riformata per adeguarla allo spostamento del baricentro economico: gli uffici della Dogana livornese divennero un dipartimento a se stante, sotto il diretto controllo di Firenze, e il Governatore della città acquisì nuove competenze giurisdizionali in materia marittima e commerciale, a scapito dei Consoli del Mare, che conservarono i giudizi di merito e gli appelli.
Le competenze dei Consoli restarono comunque ampie, ma la posizione decentrata del tribunale rischiava di vanificare il principio della celerità dei processi. Ne derivò una disputa infinita, da una parte i mercanti che trovavano insopportabile fare armi e bagagli per spostarsi a Pisa tutte le volte che avevano bisogno del giudice; dall’altra i procuratori, gli avvocati e i Priori della Comunità di Pisa, i quali non avevano alcuna intenzione di rinunciare ad una delle poche fonti di reddito rimaste alla città.
Che Pisa fosse una sede non proprio ideale per un tribunale marittimo era già abbastanza chiaro a metà Cinquecento. Nel 1553 le lamentele dei lavoratori del mare spinsero Cosimo a trasferire a Livorno almeno la competenza sulle cause tra marinai e capitani. Il provvedimento però non riuscì a sedare il contenzioso e il granduca dovette intervenire di nuovo nel 1577, ordinando che le cause di valore inferiore ai quindici scudi fossero decise dal tribunale livornese e che non occorresse più il permesso dei Consoli per ricevere alla cancelleria di Livorno il consolato dei capitani, vale a dire quella deposizione giurata concernente le fortune di mare con cui si avviavano i procedimenti di assoluzione e avaria di cui i Consoli erano giudici privativi.
Il primo intervento organico volto a definire e coordinare la giurisdizione si ebbe nel 1623. Sino ad allora le sentenze del Governatore di Livorno furono riesaminabili in appello sia dai Consoli che dalla Ruota fiorentina. La supplica di un certo Giovanni Bernard di Marsiglia, il quale, dopo aver vinto una causa contro il capitano Andrea Bramont temeva di dover continuare la lite a Firenze, indusse il governo a riformare l’intero sistema, innalzando a duecento lire il valore delle cause appellabili e indicando la corte consolare, come unica corte di appello per le sentenze del Governatore di Livorno.
La mercatura e il commercio
Nel Sei e Settecento maturarono le premesse di nuovi orientamenti giurisprudenziali che a poco a poco avrebbero completato lo scollamento del tribunale dalla sua radice corporativa. Nel 1684 la Pratica Segreta di Firenze cassò una sentenza consolare relativa a un caso di corseggio, sostenendo che l’aggiudicazione delle prede effettuate dai corsari avevano tali risvolti pubblicistici da non poter rientrare nell’ambito di competenza del tribunale pisano. In questo modo faceva timidamente comparsa una concezione rivoluzionaria della giurisdizione: la natura di una causa andava dedotta dall’oggettivazione astratta del rapporto giuridico, indipendentemente dai soggetti che vi erano coinvolti. La privativa dei Consoli, insomma, non poteva estendersi indifferentemente su qualsiasi rapporto a cui avessero preso parte marinai, capitani o mercanti, ma, senza curarsi delle persone, andava limitata ai rapporti aventi intrinsecamente un rilievo dal punto di vista dello jus marittimo e mercantile. Così non era, ad esempio, per i delitti commessi a bordo delle navi, che la Pratica sottrasse ai Consoli per affidarli senz'altro alla corte criminale del Governatore di Livorno.
Una coerente definizione della giurisdizione marittima e commerciale “ratione materiae” si affermerà comunque solo nel xix secolo. Le famose Ordonnaces colbertiane, le prime leggi organiche di emanazione statale sulla materia commerciale (1673) e marittima (1681) contribuirono a razionalizzare e unificare la normativa, esercitando un enorme influenza anche sulla prassi e sulla dottrina italiana, dal Targa al Casaregis. Gli stessi Consoli di Pisa dovettero farvi regolarmente richiamo in tutte le questioni per le quali gli Statuti di Mercanzia e di Sicurtà non fornivano risposte adeguate. Tuttavia, anche le Ordonnances rimasero ancorate agli schemi soggettivistici del diritto corporativo: pur individuando gli istituti di commercio nella loro nuda oggettività, le leggi di Colbert presupponevano ancora nel mercante il destinatario esclusivo delle norme.
Solo il Code de commerce napoleonico —pur mantenendo, come le Ordonnances la riserva dei mercanti sulla giurisdizione —, prenderà in considerazione gli 'atti di commercio' in quanto tali, a prescindere dalla persona che li avesse compiuti. I Consoli, tuttavia, non ebbero occasione di avvalersene, poiché cesseranno di esistere prima del recepimento del Code da parte della Toscana. Sopravvissuta alle riforme leopoldine di fine Settecento, l'antica magistratura pisana dei Consoli del Mare fu soppressa con l'aggregazione all'Impero francese, e sostituita nel 1809 dal Tribunale di Commercio di Livorno. Dopo due secoli e mezzo, la richiesta dei mercanti livornesi veniva finalmente esaudita.
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